Mio padre e Lady D.

In queste ore, come ogni anno nell’anniversario della morte, fiumi di inchiostro e decine di servizi tv su Lady Diana. Piaceva tanto a mio papà Lady D, assieme a Marylin Monroe, e non ho mai capito perché (pur condividendone la scelta). Anzi, mi accorgo ora di non averglielo mai chiesto, come tante altre cose: l’avarizia nei rapporti padre e figlio dovrebbe essere considerata peccato mortale e la legge dovrebbe punirla con l’ergastolo.

Anche oggi, quindi, avrei portato a papà tutti gli articoli che trovavo su Lady D., lui li avrebbe ritagliati per bene e messi nella sua colorata cartellina con l’intestazione “Lady Diana”.

Un giorno andrò ad aprirle tutte quelle cartelline: sarà un po’ come risentire la voce di papà. E tutte le parole non dette.

Le vacanze, la fede

Sul numero del settimanale “Credere”  in edicola da oggi,  c’è il mio articolo dal titolo <A Ischia il turismo si fa fede>: un piccolo reportage dall’isola, assieme al parroco don Emanuel, per raccontare la pastorale del turismo, l’attenzione ai villeggianti – anche stranieri – e la riscoperta di itinerari religiosi della tradizione.

SILENZI IN VIAGGIO

Quanti sguardi

stringono i silenzi:

per parlare (un po’

sognare, dire e non dire)

dovrei trovarti:

allora viaggio (è il

viaggiatore che fa il viaggio)

fino all’estremo

del mio corpo

(dove i piedi corrono)

fino allo stremo

d’un sentimento

cullato invano

(da piccolo nessuno mi cullava).

Juve-Napoli: non solo una partita

I miei famosi trentatré lettori ( ma soprattutto i tanti amici comuni e i tantissimi che condividono la passione per il calcio) sanno che non ho in particolare simpatia (eufemismo) la Juventus.

Stesso discorso vale per il Napoli, e qui stanno in piedi anche motivazioni personal-familiari attorno alle quali non vale la pena discettare. Pur riconoscendo che ho adorato giocatori dell’una e dell’altra (Scirea e l’immenso Baggio Roby da una parte, dall’altra Rudi Krol e il mio conterraneo Peppe Incocciati), se avessi la sfera magica del calcio, vorrei che vincessero una partita sì e 30 no.

Non metto le mano avanti, e neppure le gambe in un pericoloso tackle, per dire invece che un libricino (nella migliore accezione del termine) di recente pubblicazione mi ha un po’ ravvicinato a Juve e Napoli, anzi a <Juve-Napoli. Romanzo popolare>, come nel titolo di questo libro di Darwin Pastorin e Vincenzo Imperatore, edito da Aliberti.

Vincenzo Imperatore (della cui amicizia seppur virtuale mi onoro, e spero che questo non mi faccia velo nel parlare di codesto libro) è il tifoso napoletano, ha scritto saggi economici-finanziari soprattutto sul (pessimo) ruolo delle banche, portando anche a teatro, in un’operazione coraggiosa come poche altre, uno dei suo libri.

Darwin Pastorin, brasiliano di nascita e italo-juventino per tutto il resto, è giornalista che chi dà mostra di seguire il football non può non conoscere (qualunque figlio che non mastica di calcio, tipo il mio che pure ho cercato invano di introdurre ai piaceri della pelota, si innamorerebbe degli eroi in mutande leggendo “Lettera a mio figlio sul calcio” pubblicato qualche annetto fa da Mondadori).

Il libro è un lungo derby a distanza “giocato” sul filo della “memoria”, quel termine magico che rende ancora più bello il calcio: ecco dunque un bel campionato di ricordi – come Pastorin e Imperatore scrivono nell’introduzione non a caso intitolata “precampionato” – che rende evidente perché si diventa tifosi di una squadra. E cosa questo significa nei secoli dei secoli.

A me in particolare sono piaciuti i capitoletti “vivere lo stadio”. Un po’ perché io sono cresciuto a pane e Matusa (il vecchio, in tutti sensi, stadio di Frosinone) e ora mi coccolo il bellissimo “Benito Stirpe”. Un po’ perché da mia nonna sentivo raccontare e mi affascinavano le storie di mio nonno maresciallo, che non ho mai conosciuto, che prestava servizio nella zona del vecchio stadio del Vomero e di come ogni mattina si alzassero spalancando le finestre proprio su quel prato di calciatori.

E se di calcio non capite un accidenti – cosa che in realtà spesso accade anche a chi di calcio afferma di capire –  niente paura: questo libro è uno spaccato anche su tutto il resto che è poi la Vita (e dunque ancora il Calcio, ma qui il discorso si farebbe lungo…) e che due penne così sanno dipingere come un acquerello. Con 14 euro, insomma, vi portate a casa calcio e dintorni, senza pentirvene.

Silenzio: parla (e scrive) l’Islanda

Le penne islandesi hanno sempre ragione: prendiamo “Hotel Silence”, l’ultimo libro – almeno tra quelli pubblicati in Italia – di Audur Ava Olafsdottir, docente universitaria sessantenne, ritenuta la più grande scrittrice islandese vivente (se andiamo a comprendere anche i maschietti, però, Helgason Hallgrimur credo sia una spanna sopra).

Questo romanzo – che si può leggere anche come una serie di deliziosi racconti uno dietro l’altro – è la storia di Jonas, 49enne (che bella anche questa scelta di fermarsi alla soglia del mezzo secolo di età) che decide di andare lontano, in un posto dove c’è stata la guerra – e quale sia quel posto la scrittrice non lo dice mai – per fare la pace, soprattutto con sé stesso. In realtà, Jonas è laggiù che vorrebbe trovare la morte, lontano dalla ex moglie, da una figlia che ama più di ogni altra cosa anche se ha scoperto che non è sua figlia naturale, da una madre un po’ ingombrante come le sue parole e tesi svampite. Ma la morte non la trova (non riesce a darsela) dopo che ha conosciuto gli strani e intensi personaggi dell’Hotel Silence: poche camere d’albergo messe su alla meglio dopo che la guerra è finita e dove Jonas si ritrova insieme ai due giovani gestori e ai primi altri due turisti, in verità una attrice di fama che vorrebbe realizzare un documentario sul post guerra e un predone di opere d’arte. Jonas nella sua piccola valigia riempita in Islanda mette dentro anche un trapano e qualche rotolo di nastro adesivo. Sono i due elementi indispensabili per iniziare lì una ricostruzione (le tubature dell’hotel, le porte di un piccolo ristorante dove è l’unico avventore, le camere di una casa dove alcune donne violate dai soldati hanno deciso di andare a vivere assieme): dalla ricostruzione materiale di piccoli grandi cose, alla ricostruzione di sé stesso, ma anche della giovane che gestisce l’hotel e di suo figlio piccolo. Sono pagine di una tenerezza unica, di una scrittura indissolubilmente legata alle atmosfere d’Islanda, anche a migliaia di km di distanza da una nazione che non ha neppure un esercito. Molto contribuisce alla buona lettura l’ottima traduzione di Stefano Rosatti e merito anche alla Einaudi che continua a pubblicare tutti i libri della Olafsdottir.

Pagine che profumano di una religiosità intensa, una sorta di bisogno disperato di Dio, di un Cielo meno cupo. Come peraltro già accadeva  ne<Il rosso vivo del rabarbaro>, il libro della scrittrice islandese precedente a questo. Lì c’è Nina che non vuole sprecare le parole: <Quante particelle grammaticali ha adoperato Gesù Cristo per salvare il mondo? Pochissime>. Lì, in quelle stesse pagine, c’è l’essenzialità della terra d’Islanda: <Lo so che vorresti poter correre – dice la protagonista a una bambina che non può farlo per un handicap fisico – ma, guarda, c’è pieno così di gente che corre tutta la vita e non arriva mai da nessuna parte>.

Ecco, quella d’Islanda è una religiosità “familiare”, in una terra per niente facile, dove anche il Cristianesimo ha attecchito poco (qualche mese fa ne ho scritto sul settimanale “Credere”, intervistando i padri di una delle poche comunità religiose cattoliche presenti in Islanda). E dove le parole davvero restano scolpite come pietre. Grazie anche a libri come questo.

Ps: poi c’è l’Islanda delle mille atmosfere che si può scoprire grazie a scrittori italiani e libri meritevoli. Suggerisco “Siamo state a Kirkjubæjarklaustu, di Valeria Viganò (Neri Pozza), “Tutta la solitudine che meritate” di Claudio Giunta e Giovanna Silva (Quodlibet) e “Ghiaccio fuoco” di Nicola Lecca e Laura Pariani (Marsilio).

Giovanni Paolo I e altri muri da abbattere

Quarant’anni fa Albino Luciani veniva eletto pontefice e la Chiesa riceveva in dono Giovanni Paolo I.

Il Papa della semplicità, che in quei pochi giorni preparò la strada (e solo Dio sa quali sono le strade giuste e da percorrere, altro che tutte le assurde dietrologie dietro quella morte) al successore, che non a caso volle dare continuità a quel fare affabile, scegliendo il nome di Giovanni Paolo II.

Ho come nelle orecchie ancora il rintocco mesto delle campane del paese dove andavo a scuola, per annunziare poi la nascita al Cielo del Papa. E le lacrime a rigare il volto di una professoressa in aula a ridarne l’annuncio. Quando ancora a scuola si poteva professare una Fede, ma questo è un altro discorso… O forse no: abbiamo bisogno di aggrapparci a figure come quella di Giovanni Paolo I, ai suoi scritti, al suo operato, per ritrovare tutti quei Valori smarriti dalla società e nella società, e provare a rifondare questo tessuto poi lacerato da tante idiozie para-ideologiche, e far così cadere altri muri. Anche per questo, ogni sera – e da tempo – prima di addormentarmi prego anche Giovanni Paolo I. Santo subito, da sempre.