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Minchia signor Faletti, come manchi

Presi come siamo dalla stretta attualità – che va sempre più… stretta a chi cerca altro – ieri, 4 luglio 2019, in pochissimi hanno celebrato il quinto anniversario della scomparsa di Giorgio Faletti.

Molti lo ricordano come comico (bravo, mai sguaiato), moltissimi ne apprezzano ancora oggi i gialli. Eppure, fu con la Musica (intesa come parole e come melodia) che questo Artista astigiano offrì probabilmente il meglio di sè: “Signor tenente” – la canzone che portò a Sanremo nel 1984, se non ricordo male – era e resta un capolavoro. E quel “minchia signor tenente” andrebbe fatta ascoltare, riascoltare e imparare a memoria a tanti ragazzi, compresi quei giovani che aspirano a diventare musicisti passando per le scorciatoie di un talent di una sola stagione.

O a quegli adulti che oggi blaterano di antimafia, senza poi dare costrutto a tante buone intenzioni.

Faletti scrisse tante altre canzoni, magari meno famose ma tutte significative, mai inutili, mai da talent per l’appunto, offrendole ad artisti diversi, e spesso pure questi – da Drupi a Fiordaliso passando per Dario Baldan Bembo – mai apprezzati fino in fondo.

E poi, Giorgio Faletti spese gli ultimi anni della sua vita su un’isola (l’Elba). E solo un uomo che va su un’isola è capace di non essere un’isola.

Minchia signor Faletti, come manchi.

Vedi alla voce: mitezza

L’editoriale per il numero di giugno di Anagni-Alatri Uno, mensile diocesano.

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“Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime (Mt. 11,28-30).

”Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la Terra. (Mt 5, 3-12)

Per aprire il cuore degli altri ed invitare alla conversione servono mitezza, umiltà e povertà, seguendo i passi di Cristo (papa Francesco, Santa Marta, febbraio 2019).

Se avete letto con attenzione queste frasi – e cento altre ancora se ne potrebbero elencare restando in materia – al centro c’è sempre la “mitezza”: per la grammatica italiana è un sostantivo femminile, per noi che ci diciamo cristiani è un invito che dovrebbe farsi stile di vita. Ma probabilmente è la più dimenticata delle beatitudini. Eppure, serve come il pane, come l’aria per respirare in questi giorni così difficili. E anche chi scrive non avrebbe ripescato il concetto di “mitezza” da ricordi evangelici e letterari (il filosofo Norberto Bobbio scrisse addirittura un “Elogio della mitezza”) se il vescovo Lorenzo Loppa non lo avesse messo nell’elenco – premuroso e per niente didascalico – degli impegni che ogni sacerdote deve assumere davanti alla comunità. Il presule lo ha fatto durante l’omelia della Messa di ordinazione di don Rosario Vitagliano (da pagina 4 ne pubblichiamo un ampio estratto) invitando il neo presbitero alla gioia, alla preghiera, alla pazienza, alla speranza e, per l’appunto, alla mitezza.

Ma è come se l’invito del vescovo Lorenzo, risuonato della Cattedrale di Anagni, riguardasse ognuno di noi, le nostre vocazioni. Da qualche decennio, la Chiesa ripete con sempre più forza e convinzione che la vocazione non è solo sacerdotale e religiosa, ma anche quella al matrimonio, al celibato, all’essere padri e figli. Oggi bisognerebbe aggiungere un surplus di vocazione: all’essere uomini di questo mondo e di questo periodo così difficili, perfino a essere disoccupati, in cerca di lavoro, padri di figli che scappano.

Certo, è una forzatura, perché nessuno è chiamato (vocazione, dal latino vocatio, ovvero “chiamata”, “invito”) ad essere disoccupato o a vivere nei veleni di una terra inquinata, figuriamoci. Però ora è questo quello che accade. E non sarebbe male affrontare il tutto con una dose sempre maggiore di mitezza, anziché con l’odio reciproco, con l’io che non corrisponde a Dio, con il tutti contro tutti.

 

L’alba della domenica

L’alba oramai ho imparato a guardarla ogni giorno, svegliato sempre troppo presto, e sempre prima, da pensieri sovrapposti alle parole di persone che m’hanno fatto male.

Ma l’alba della domenica ha comunque colori e calori diversi, riflessi nel giorno del Signore. La guardo dal finestrone della mia cucina – casa focolare domestico – e la sento nel respiro che è ancora sonno dei miei cari.  Poi mi lascerò cullare dalle prime campane a festa, dallo scorrere avido su un giornale – preghiera laica irrinunciabile – e dai sorrisi e dalle strette di mano di gente che conosco da sempre. E ripenso che tutto muove da quell’Alba, come un giorno senza fine.

Dalla musica messicana al seminario: storia di una vocazione

Ancora pochi giorni e poi Rosario Vitagliano sarà don Rosario: l’8 giugno verrà infatti ordinato sacerdote nella Cattedrale di Anagni, al culmine di un percorso di vita e vocazionale che lui stesso sintetizza così: «Sono nato ad Alatri il 17 febbraio 1983 e sono vissuto a Trevi nel Lazio, insieme a papà Renato, a mamma Irene che tutti chiamano così anche se si chiama Nazarena, a mia sorella Barbara, di 5 anni più piccola. A Trevi ho fatto elementari e medie, prima del Classico a Subiaco. Poi mi sono iscritto alla facoltà di Giurisprudenza e mi sono laureato a Tor Vergata nel 2011. Un anno dopo, nell’ottobre del 2012, sono entrato in seminario, al Leoniano di Anagni».

Sullo specifico del “sentire” la vocazione, don Rosario entra nei dettagli del racconto: «A Trevi c’erano delle suore, le Oblate del Sacro Cuore, che organizzavano un po’ la pastorale del paese e io, assieme ad altri ragazzi, davo una mano come potevo, soprattutto suonando, perché ho studiato un po’ di musica e suono fisarmonica e tastiere. Era soprattutto suor Amalia a trascinarmi nello stare insieme ai ragazzi, organizzare recital e musical. E poi mi portava agli incontri di preghiera. Erano tutte cose che mi piacevano e suor Amalia ogni tanto la buttava lì: “ma perché non entri in seminario?”. Io non le davo retta, almeno all’apparenza, perché in realtà sentivo questo desiderio crescere dentro di me. Ne parlavo anche con don Alberto Ponzi, parroco a Trevi, e lui mi è stato sempre d’aiuto, soprattutto nella fase di discernimento. Io intanto mi ero iscritto all’università e, d’accordo anche con don Alberto, ho deciso di proseguire e terminare gli studi, per verificare poi se sentivo ancora o meno la vocazione. E anche per dare una soddisfazione in famiglia prendendo la laurea in Legge».

Laurea che, come detto, arriva nel 2011 e dopo la quale Rosario prende anche in esame la possibilità di cercarsi un lavoro in qualche studio legale. Ma, in parallelo, continua a dare una mano alla pastorale del paese e soprattutto al santuario della Santissima Trinità di Vallepietra, dove è rettore lo stesso don Alberto. «Andavo lì a suonare durante le Messe, ad animare le funzioni. E proprio davanti alla Trinità è maturata la mia scelta definitiva, perché in effetti era quella del seminario la mia prima scelta. Mi ricordo che era una domenica e parlando con don Alberto a un certo punto gli ho detto: “Va bene, io entro in seminario. Però se mi accorgo che non fa per me, esco subito”. E lui mi ha risposto: “Vai pure, vedrai che sarà un bel cammino”».

Rosario entra al Leoniano con un misto di convinzione e sano timore: «A parte l’università, non avevo mai lasciato l’ambiente di Trevi, che era il mio mondo. Lì suonavo anche in un gruppo, “I Tequila”, musiche latinoamericane e balli di gruppo, ci chiamavano a suonare nelle feste e l’ho fatto fino a poco tempo fa. La prima settimana in seminario è stata traumatica, ma poi tutto è passato e ho trovato quel mondo bello ed accogliente. Ho apprezzato ancora di più la forza della preghiera, il contatto con la Parola di Dio. E sono stati anni anche di grande formazione umana: ho imparato a voler bene e a volere il bene degli altri, con i formatori e i compagni di classe il rapporto è sempre stato buono».

Da seminarista, i primi due anni ha dato una mano alla parrocchia di Trevi, poi nell’unità pastorale di Alatri centro, anche da diacono, e dove dovrebbe restare anche dopo l’ordinazione.

Chiudiamo con una battuta sulla crisi delle vocazioni, almeno nei numeri: «Forse c’è l’idea che un seminario sia un luogo chiuso, oscuro. E invece vi assicuro che non è così: c’è gioia, allegria, la musica, il pallone! Certo, conta anche la figura del prete: se un giovane vede un prete felice di esserlo, allora ti viene spontaneo pensare: anche io voglio essere così».

(articolo pubblicato sulla pagina diocesana Anagni-Alatri di Laziosette, l’inserto della domenica di Avvenire)

Una preghiera per i giornalisti

Questa domenica, che oramai sta per finire, è dedicata dalla Chiesa alle comunicazioni sociali. Il tema scelto è bellissimo: « “Siamo membra gli uni degli altri” (Ef 4,25).  Dalle social network communities alla comunità umana ».

Ecco, mi sarei aspettato un fiume di post sui social. E invece, a parte qualche raro collega, niente di niente. Però si sono sprecati i commenti su Marco Carta, sulle baruffe alla sfilata del 2 giugno, perfino sulla finale di Champions senza squadre italiane.

Io invece, nel mio piccolissimo, stamattina mi sono un po’ emozionato e commosso (e commosso ed emozionato) quando a Messa, alla preghiera dei fedeli, è stato rivolto un pensiero anche per i giornalisti. Perché è sempre più chiaro che di questo abbiamo bisogno: di preghiere. E di pregare.