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Igor Traboni - Giornalista per passione (e un po' anche per necessità)

Giovanni Paolo I e altri muri da abbattere

Quarant’anni fa Albino Luciani veniva eletto pontefice e la Chiesa riceveva in dono Giovanni Paolo I.

Il Papa della semplicità, che in quei pochi giorni preparò la strada (e solo Dio sa quali sono le strade giuste e da percorrere, altro che tutte le assurde dietrologie dietro quella morte) al successore, che non a caso volle dare continuità a quel fare affabile, scegliendo il nome di Giovanni Paolo II.

Ho come nelle orecchie ancora il rintocco mesto delle campane del paese dove andavo a scuola, per annunziare poi la nascita al Cielo del Papa. E le lacrime a rigare il volto di una professoressa in aula a ridarne l’annuncio. Quando ancora a scuola si poteva professare una Fede, ma questo è un altro discorso… O forse no: abbiamo bisogno di aggrapparci a figure come quella di Giovanni Paolo I, ai suoi scritti, al suo operato, per ritrovare tutti quei Valori smarriti dalla società e nella società, e provare a rifondare questo tessuto poi lacerato da tante idiozie para-ideologiche, e far così cadere altri muri. Anche per questo, ogni sera – e da tempo – prima di addormentarmi prego anche Giovanni Paolo I. Santo subito, da sempre.

L’eskimo dell’insopportabile Moravia

Facevo le scuole medie: questo lo ricordo bene, perché le lunghe stagioni estive di allora, quando poi la scuola ricominciava al primo di ottobre, le trascorrevo nella grande casa e nella grandissima pace di nonna Maria, a Ceprano.

Dunque, a 11 o 12 o 13 anni, in una di quelle estati insomma, mi fece compagnia <Arcipelago Gulag>, il libro di Aleksandr Solgenitsin. Leggevo e rileggevo quelle pagine d’epoca e epocali (in un’altra di quelle estati adolescenziali, invece, mi accompagnai all’archeologia de <Il tesoro greco> ed entrambi questi libri devo ancora averli da qualche parte) e mio padre un po’ era contento per quella scelta, ma un po’ anche preoccupato per la mancata preferenza a libri più adatti all’età (Salgari in effetti l’ho scoperto poco dopo).

Eppure, a ripensarci adesso, era già la mia età: su quella seggiola davanti alla campagna ciociara un po’ sterminata e un po’ puntellata da una cartiera e dalla striscia d’asfalto dell’autostrada, contrassi i germi dell’anticomunismo.

La riprova l’ho avuta nello scorso fine settimana, leggendo un lungo articolo di Giulio Meotti su Il Foglio, dedicato per l’appunto a Solgenitsin.

Tra le tante cose sottolineate da Meotti, due su tutte: un rimando al grande giornalista Enzo Bettiza che rimarcava come “le Brigate Rosse uccidevano nel nome del comunismo” (tremenda verità che ancora oggi in tanti cercano di confutare, soprattutto quelli che continuano ad indossare l’eskimo in redazione, secondo il titolo del bel libro di Michele Brambilla).

La seconda (ri)scoperta che devo a Meotti: lo scrittore russo stava sulle scatole ad Alberto Moravia. Lo stesso Moravia che in questi primi 54 anni di vita non sono riuscito a digerire neanche un po’. Tutto torna, insomma.

Perdona i grillini. Pure al Meeting

Ogni anno ne dicono di tutti i colori, ma il Meeting di Rimini è sempre lì, da 39 anni. E da oggi e per tutta la settimana accompagnerà chi ha voglia di riflettere, di non mandare il cervello all’ammasso.

Anche quest’anno ne scriveranno e ne diranno peste e corna, soprattutto i grillini – c’è da scommetterci – di fatto (nei fatti) il partito più anti-cattolico sulla piazza, degni eredi di quelli che hanno coniato termini tipo “Comunione e fatturazione”. Cristianamente, è anche a loro che bisogna comunque pensare. E magari perdonarli. Perché proprio non sanno quello che dicono. E che (non) fanno.