? Tra…boni e cattivi | Pagina 93

Minchia signor Faletti, come manchi

Presi come siamo dalla stretta attualità – che va sempre più… stretta a chi cerca altro – ieri, 4 luglio 2019, in pochissimi hanno celebrato il quinto anniversario della scomparsa di Giorgio Faletti.

Molti lo ricordano come comico (bravo, mai sguaiato), moltissimi ne apprezzano ancora oggi i gialli. Eppure, fu con la Musica (intesa come parole e come melodia) che questo Artista astigiano offrì probabilmente il meglio di sè: “Signor tenente” – la canzone che portò a Sanremo nel 1984, se non ricordo male – era e resta un capolavoro. E quel “minchia signor tenente” andrebbe fatta ascoltare, riascoltare e imparare a memoria a tanti ragazzi, compresi quei giovani che aspirano a diventare musicisti passando per le scorciatoie di un talent di una sola stagione.

O a quegli adulti che oggi blaterano di antimafia, senza poi dare costrutto a tante buone intenzioni.

Faletti scrisse tante altre canzoni, magari meno famose ma tutte significative, mai inutili, mai da talent per l’appunto, offrendole ad artisti diversi, e spesso pure questi – da Drupi a Fiordaliso passando per Dario Baldan Bembo – mai apprezzati fino in fondo.

E poi, Giorgio Faletti spese gli ultimi anni della sua vita su un’isola (l’Elba). E solo un uomo che va su un’isola è capace di non essere un’isola.

Minchia signor Faletti, come manchi.

Vedi alla voce: mitezza

L’editoriale per il numero di giugno di Anagni-Alatri Uno, mensile diocesano.

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“Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime (Mt. 11,28-30).

”Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la Terra. (Mt 5, 3-12)

Per aprire il cuore degli altri ed invitare alla conversione servono mitezza, umiltà e povertà, seguendo i passi di Cristo (papa Francesco, Santa Marta, febbraio 2019).

Se avete letto con attenzione queste frasi – e cento altre ancora se ne potrebbero elencare restando in materia – al centro c’è sempre la “mitezza”: per la grammatica italiana è un sostantivo femminile, per noi che ci diciamo cristiani è un invito che dovrebbe farsi stile di vita. Ma probabilmente è la più dimenticata delle beatitudini. Eppure, serve come il pane, come l’aria per respirare in questi giorni così difficili. E anche chi scrive non avrebbe ripescato il concetto di “mitezza” da ricordi evangelici e letterari (il filosofo Norberto Bobbio scrisse addirittura un “Elogio della mitezza”) se il vescovo Lorenzo Loppa non lo avesse messo nell’elenco – premuroso e per niente didascalico – degli impegni che ogni sacerdote deve assumere davanti alla comunità. Il presule lo ha fatto durante l’omelia della Messa di ordinazione di don Rosario Vitagliano (da pagina 4 ne pubblichiamo un ampio estratto) invitando il neo presbitero alla gioia, alla preghiera, alla pazienza, alla speranza e, per l’appunto, alla mitezza.

Ma è come se l’invito del vescovo Lorenzo, risuonato della Cattedrale di Anagni, riguardasse ognuno di noi, le nostre vocazioni. Da qualche decennio, la Chiesa ripete con sempre più forza e convinzione che la vocazione non è solo sacerdotale e religiosa, ma anche quella al matrimonio, al celibato, all’essere padri e figli. Oggi bisognerebbe aggiungere un surplus di vocazione: all’essere uomini di questo mondo e di questo periodo così difficili, perfino a essere disoccupati, in cerca di lavoro, padri di figli che scappano.

Certo, è una forzatura, perché nessuno è chiamato (vocazione, dal latino vocatio, ovvero “chiamata”, “invito”) ad essere disoccupato o a vivere nei veleni di una terra inquinata, figuriamoci. Però ora è questo quello che accade. E non sarebbe male affrontare il tutto con una dose sempre maggiore di mitezza, anziché con l’odio reciproco, con l’io che non corrisponde a Dio, con il tutti contro tutti.