? Tra…boni e cattivi | Pagina 88

Quel Tempo dei giornali divorati

Non vedevo l’ora che papà si alzasse dalla poltrona del salotto, non tanto per appropriarmi di quello spazio – preferivo le meno prosaiche ma più appartate scale condominiali che portavano al grande terrazzo che sovrastava i tetti degli altri edifici e che noi bambini avevamo eletto a torre di guardia per guerre mai combattute ma sempre vinte  – quanto piuttosto perché quello era il segnale giusto: aveva finito di leggere il giornale, quindi… toccava a me! Ed eccoli, gli immensi fogli de “Il Tempo”, non più intonsi, ma neppure troppo sgualciti, che iniziavo a divorare dalla prima all’ultima pagina, dal primo all’ultimo articolo, senza perderne neppure uno, anche se certi argomenti erano per me astrusi. Era quello il giornale che allora – a conti fatti, siamo a 45 anni fa – entrava in casa. E che ho letto anche io per tanti anni dopo. Allora non ne conoscevo “l’orientamento politico” e neppure mi interessava: mi bastavano (anche se in realtà non mi bastavano mai) gli articoli di cronaca, la terza pagina, gli spettacoli e lo sport, la rubrica del “disco rosso”, il “Così, semplicemente” di padre Rotondi, le recensioni di Rondi, gli editoriali di Gianni Letta (a proposito, qualche giorno fa l’ho incontrato a L’Aquila, l’ho ringraziato per quel periodo e quel giornale e l’ho visto perfino un po’ commosso nel ringraziare lui a me).

Nelle lunghe estati nella casa di campagna di nonna Maria, dietro la cantina era il luogo ideale per nascondermi, con “Il Tempo” (nonna si sobbarcava lunghi tragitti a piedi fino al paese, per la spesa di ogni giorno ma anche per prendere il giornale a quel nipote che rompeva la solitudine di vedova troppo giovane e la faceva ridere con i suoi scherzi) e un manico di scopa: quello era il microfono, e io ero l’inviato di un tg mentre leggevo le cronache del giornale da Paesi lontani.  Forse è lì e allora che ho desiderato fare il giornalista da grande; sicuramente è su quelle pagine che ho imparato i primi ma essenziali rudimenti della professione.

Poi gli anni sono passati. Ed è cambiato “Il Tempo” e sono cambiato anch’io, con i miei gusti editoriali, insieme al mondo dei giornali. Non faccio difficoltà ad ammettere che per un lungo periodo quel giornale non l’ho più riconosciuto, e quindi letto ancora di meno. Ma, al… tempo stesso, mi sono di nuovo un po’ emozionato – ed ecco perché scrivo queste misere righe di ricordi – quando stamane ho appreso delle novità grafiche del Tempo: un giornale che si rifà il vestito, che ne indossa uno nuovo, è perché vuole (ri)uscire tra la gente e fare bella figura.

La copia di oggi ce l’ho qui accanto, la sto compulsando da stamane, e “il nuovo” già si vede, si legge.

E, per quello che conta, faccio i migliori auguri al direttore Franco Bechis (nessuna captatio benevolentiae: ci saremmo visti sì e no un paio di volte e di certo neppure si ricorderà di me) perché questo nuovo vestito possa attrarre tanti lettori… Proprio come quel papà sprofondato nella sua poltrona e quel bambino col manico di scopa come un microfono.

 

ALLEGORIA (come una malinconia)

L’ultimo sguardo si posa, vittima innocente,

dove oramai non serve più niente.

E allegria, fiaba, allegoria:

sogni dispersi di vita tua e vita mia.

 

Certi sguardi ripartono, da tutto e da niente,

poi trovano spianata la nuova via.

E tristezza, realtà, malinconia:

dei sogni non si butta via niente.

Silone, quel grande cristiano (e la speranza di “Severina”)

Sull’Osservatore Romano di oggi – con data venerdì 11 ottobre e reperibile gratis sul sito del giornale della Santa Sede – ecco un articolo dedicato ad Ignazio Silone e da incorniciare, dal titolo “L’avventura di un grande cristiano”, nella rubrica “Incontri”, scritto da Elio Guerriero, uno dei massimi esperti siloniani (la sua biografia “Silone l’inquieto”, edita nel 1990 dalle Paoline, è una delle migliori mai pubblicate). Evidente il gioco di parole con l’avventura del “povero” cristiano e, prendendo spunto da qui e andando ben oltre, Guerriero tratteggia bene proprio la grandezza di Silone, che altri hanno invece colpevolmente sottaciuta anche in questo 30° anno dalla scomparsa.

Amo Silone come pochi altri scrittori, per una di quelle classiche infatuazioni giovanil-letterarie che neppure so spiegare (forse la lettura di un “Fontamara” alle scuole medie?) ma che poi si sono sedimentate. E adoro in particolare il suo scritto forse meno conosciuto, tanto più che, per il sopraggiungere della malattia e poi della morte, Silone lo lasciò incompiuto: “Severina”. E’ stata poi Darina, la moglie di Silone, a pubblicare quel testo che il suo Ignazio sulle prime intitolò “La speranza di suor Severina” e che stava scrivendo in un albergo di Fiuggi.

E ogni volta che vado a Fiuggi, peraltro cittadina a due passi da casa mia, mi fermo davanti ad un albergo dove Silone vergò quelle pagine, e immagino di vederlo lo Scrittore, lì sotto il gazebo e le foglie gialle tutte attorno a fargli da scudo, mentre verga parole e pensieri chino su un tavolo da giardino, un po’ ingobbito su una sedia bianca e gli occhi solo di tanto in tanto sollevati a guardare una vecchia fontana senza pure uno scroscio d’acqua (così come immagino, ogni tanto, di avere capacità da scrittore e di poter un giorno riprendere e finire io “Severina”, che addirittura vedo anche possibile sceneggiare per la tv e corro perfino a immaginare chi possa interpretare quella giovane suora…).

“Severina” è un susseguirsi di pagine memorabili (trovatelo il libro, leggetelo). “Severina” è – per l’appunto – la speranza messa per iscritto. La speranza (Darina commentò che probabilmente in quella figura femminile, peraltro l’unica protagonista della sua produzione, Silone scrisse di sé stesso) di un grande cristiano.

(nella foto, la prima pagina della mia edizione di “Severina”, edizione Mondadori, acquistata a 19 anni, nell’autunno del 1983, e da allora letta centinaia – o migliaia? – di volte).

Le ciambelle della giovane, timida suora di clausura

La suora è giovane, timidissima. Accoglie i visitatori delle “Passeggiate alatrensi” poco oltre il portone (nella foto) del monastero delle Benedettine, nel centro di Alatri. Poco più in là c’è un altro portone, quello della clausura, e di certo questa giovane monaca avrà avuto il permesso per star lì.

Offre con timidezza i dolci ai visitatori che entrano per ammirare il chiostro. In realtà è già mattina tardi e i dolci sono praticamente tutti finiti: “Aspetti, forse ne abbiamo ancora un pacchetto di là”. Torna subito dopo, sempre timidissima: “Mi spiace, sono finiti tutti, proprio tutti. Però abbiamo ancora queste ciambelle. Le abbiamo preparate fino a ieri sera, non immaginate quanta fatica”.

Prendiamo il pacchetto, lasciamo l’offerta e la giovane religiosa è ancora più timida nell’accettare quei soldi (pochi, ma comunque essenziali per la vita del convento) e addirittura le compare un velo di rossore sul viso quando le diciamo che per il piccolo resto può lasciar stare, accetti anche quello come offerta. Il suo sorriso nel salutare vale molto di più di mille “grazie”.

Fuori, percorriamo appena pochi metri ma non resistiamo: la prima ciambella la mangiamo subito. E’ profumatissima, delicata, di un gusto mai sentito prima: sarà quel gusto della Fede autentica, di quella preghiera spesa per tutti noi dalle monache di clausura, in un apparente nascondimento che invece è Vita che esplode, anche nell’impastare ciambelle fino a tardi.