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Antonio, 28 anni. Giornalista

Le polemiche non servono, mai. Figuriamoci poi in momenti come questi. Ma è altrettanto vero che certe cose bisogna pur dirle, se le hai dentro e ti senti esplodere, se la faccia vuoi mettercela sempre, come ti ha insegnato un amico prete.

Antonio aveva 28 anni e faceva il giornalista. Passeggiava per i mercatini di Strasburgo, come avrebbe fatto qualsiasi altra persona durante una pausa del suo lavoro. In quelle stesse ore, mentre Antonio moriva, il vicepresidente del Consiglio dei Ministri Luigi Di Maio ribadiva tutta l’acredine, sua e del suo partito, contro i giornali e i giornalisti.

Io – senza ironia – rispetto l’On. Di Maio per il ruolo istituzionale che ricopre; anche se non mi rappresenta, visto che la sua parte politica fa sfoggio di essere anticristiana e in alcuni tratti ricorda certi regimi comunisti. In questo tourbillon politico-istituzionale, l’On Di Maio – e in misura financo peggiore alcuni suoi colleghi di partito – ha dunque infilato anche questa bramosia di distruggere giornali e giornalisti. Però almeno in queste ore poteva tacere. Mentre Antonio moriva. Antonio, 28 anni, giornalista.

 

Maria Goretti veglia sui morti di Corinaldo

Corinaldo, Corinaldo… da due giorni, da quando lo sento alla tv e lo leggo sui giornali per la strage della discoteca, il nome di questo paese mi risuona nella testa.

Poco fa finalmente l’ho ricollegato: qui nacque, nell’ottobre del 1890, Maria Goretti, futura Santa. Li visse poco (i suoi si trasferirono prima nelle campagne ciociare e poi dalle parti di Nettuno in cerca di terra da coltivare) ma la casa natale della giovinetta è ancora visibile, peraltro a poca distanza dalla discoteca dove hanno perso la vita quei 5 ragazzini e una giovane mamma.

Erano tempi diversi, quelli. Era anche una gioventù diversa, un substrato di valori familiari differenti, molto differenti da quelli di oggi. Che già chiamarli “valori” è una bestemmia in piena regola. Allora,  si cantavano le canzoni popolari nei campi, le lodi a Dio alla Messa dell’alba, si strappava un altro tozzo di pane per mandare comunque un figlio a scuola. Nessuno “cantava” la droga, le assai presunte “libertà” di ogni tipo che ti portano a veder spuntare il giorno dietro un vuoto assoluto e l’ansia di genitori che aspettano, tanto meno sbeffeggiava l’istruzione.

E’ a Maria Goretti, la piccola grande Santa della purezza,che tanti giovani dovrebbero prendere a modello per ridare un senso a vite così vacuamente fuori dall’ordinario (e figuriamoci poi dallo straordinario che c’è in ogni esistenza umana), è a lei che mi sento di affidare quei ragazzini, quella mamma.  Insieme a tutto il dolore ora scolpito in chi prosegue sulla strada di questo pellegrinaggio terreno. Che solo noi rendiamo più mesto.

Buon Avvento (della Speranza) a tutti

Buon Avvento a tutti.

(io accendo la candela della Speranza. Quella virtù che, come dice papa Francesco, “Non è ottimismo, ma molto di più”. L’accendo, col desiderio di tenerla viva, di non farla spegnere: per quanto fiammella possa essere, cercherò di mantenerla accesa per arrivare al Natale vero, quello che ci porterà al Gesù che ri-nasce).

Eremiti: altro che fuori dal mondo

Gli eremiti mi ricordano tanto le monache di clausura: il loro pregare è essenziale per la Chiesa, per i cristiani, per il mondo intero.

Dicono che sono persone fuori dal mondo, ma è una diceria, è un dato basato  solo sull’apparente: il silenzio, il nascondimento, la preghiera per l’appunto, consentono loro di essere “nel mondo” molto più di noi.

E sul settimanale “Credere” provo a raccontare la storia di don Raffaele Busnelli, il parroco che ha deciso di farsi eremita, scegliendo così una vocazione nella vocazione.

Vicini ai preti (e ai preti della “vicinanza”)

Come laici siamo chiamati ad essere vicini ai nostri preti, in particolare – per il ruolo che svolgono – ai parroci. Anche per questo su “Anagni-Alatri Uno”, il mensile di questa comunità ecclesiale che ho il piacere di dirigere, da due mesi ho iniziato la rubrica “Vita da parroco”. E questo mese ho incontrato don Francesco Frusone, parroco a Morolo e in assoluto il più giovane parroco come età (32 anni) di tutta la diocesi. Ecco il racconto di questo incontro…

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La seconda tappa del nostro viaggio “Vita da parroco” ci porta a Morolo, 3200 abitanti alle falde dei monti Lepini e che la leggenda vuole fondata da Annibale, che da queste parti passò attorno al 200 avanti Cristo per poi dirigersi verso Roma, con intenzioni poco amichevoli. Il nucleo storico del paese è dominato dalla chiesa di Santa Maria Assunta, con le caratteristiche due scalinate e la statua di San Francesco che richiama l’opera dello scultore Ernesto Biondi, gloria locale.

Qui è parroco don Francesco Frusone che, con i suoi 32 anni, è il più giovane parroco della diocesi di Anagni-Alatri. Arriva da Pignano, popolosa contrada di Alatri, e ha appena festeggiato i due anni di presenza a Morolo, dopo che nei tre anni successivi all’ordinazione del 2013 era stato invece vice parroco a Civita di Alatri.

Ma cosa ha signifcato per un giovane prete diventare parroco così… giovane? <Era un momento desiderato – prende a raccontare don Francesco – è come quando diventi maggiorenne e non vedi l’ora di prendere la patente. Ho sentito gioia, entusiasmo, ma anche la preoccupazione delle tante cose da fare, il mio desiderio di arrivare a tutti, il confrontarmi con i miei limiti e difetti. A Morolo sono stato accolto bene dal… terzo giorno – scherza don Francesco – perché un po’ di scetticismo iniziale era comprensibile, anche perché in paese si erano alternati diversi preti, poi andati via, anche stranieri. Ma dopo due giorni mi sono sentito dire: “Ecco un prete che parla il dialetto come noi” e sono stato accolto dal cuore grande della gente di Morolo, che è davvero generosa in tutto quello che fa. Praticamente ogni famiglia mi ha invitato a cena e sono subito ingrassato di dieci chili!>. In un paese neppure tanto piccolo, le urgenze pastorali non mancano. <Penso a quella della formazione – sottolinea don Francesco – all’urgenza di rendere tutti consapevoli e partecipi dell’azione pastorale. Penso ai giovani e per loro vorrei trovare sempre più attenzione. Ci sono 60 bambini della comunione e 30 della cresima e un bel gruppetto del post cresima che cerco di seguire con degli incontri a tema. Ma la cosa più importante credo sia la mia vicinanza, stare con loro anche in maniera semplice, ma starci>, aggiunge in maniera accalorata, mentre non a caso, dal tavolino del bar della nostra chiacchierata, ogni tanto deve alzarsi proprio per salutare questo o quel ragazzo, una coppia o una giovane mamma.

Morolo, poi, è un paese che, come tanti, vive lo svuotamento del centro storico. <Molta gente – rimarca don Frusone – si sposta nelle campagne, quasi non si distingue più il confine con gli altri paesi. In centro sono rimaste 300 famiglie e allora non è semplice l’azione pastorale, penso al momento delle benedizioni, ma anche questa è una sfida per me perché sono chiamato a stare comunque con queste persone, in tutti i luoghi dove si trovano, con una vicinanza che vuole essere anche umana. E qui mi riallaccio al discorso dei giovani: è questa la Chiesa che vuole papa Francesco, è questo che ci chiede il nostro vescovo Lorenzo. Una Chiesa accogliente>. E “accoglienza” è il termine che questo giovane parroco, dall’aspetto e dai modi che trasmettono una naturale simpatia, ripete più volte durante la chiacchierata. <Verso i giovani – riprende don Francesco – serve vicinanza, serve frequentare i luoghi che loro frequentano, diventare amici, compagni di viaggio. Chiedono una Chiesa vicina a loro. Se invece fai solo mille incontri, non vai da nessuna parte>. Don Francesco, invece, ha ben chiara quella che è la sua “direzione”, fin da quando bambino giocava nelle campagne di Pignano e i suoi decisero di mandarlo nel seminario minore per farlo studiare; e lì è nata ed è maturata la sua vocazione <e la mia famiglia è stata importante perché mi ha trasmesso la fede, anche se poi  non è stato facile accettare che l’unico figlio maschio  (ha due sorelle, ndr) diventasse prete…>, sorride don Francesco, pronto per un’altra giornata da parroco a Morolo, intervallata per tre mattine alla settimana dall’insegnamento al Bonifacio VIII di Anagni. <Anche la scuola la metto al centro, perché ti fa sperimentare dove sono i ragazzi, ti fa lavorare con loro e per loro, come ripete il nostro vescovo. Per me prete è anche importante il contatto con le famiglie dei ragazzi, capire le loro esigenze. E questo poi mi aiuta nella pastorale di tutti i giorni proprio con le famiglie, a dialogare, ad entrare in sintonia con loro>, conclude don Francesco, tornando a quella parolina “magica” ed efficace: vicinanza.

Il riflesso

ECCO L’EDITORIALE DELL’ULTIMO NUMERO DI “ANAGNI-ALATRI UNO”, IL MENSILE DELLA DIOCESI DI ANAGNI-ALATRI CHE HO L’ONORE DI COORDINARE

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Sinodo dei giovani e convegno ecclesiale della diocesi di Anagni-Alatri: l’accostamento tra “le cose di Chiesa” più forti di queste ultime settimane non è ardito e, anzi, è il riflesso della Chiesa universale che si specchia in quelle locali, e viceversa. Un riflesso che ci piace assai, che ci fa sentire sempre più Chiesa.

Al centro, dell’uno come dell’altro evento, i giovani: non il giovanilismo fine a se stesso, l’inseguire mode – e modi – che non sono proprie della Chiesa, ma una riflessione acuta, seria e di prospettiva su un mondo che chiama e interpella, oggi più che mai. Che non ammette mezze misure, che non tollera scorciatoie, che non vuol sentire parole a vanvera.

La prospettiva è tutta nelle risposte da dare, senza perdere altro tempo, senza sprecare l’occasione di questo tempo, data proprio dal fatto che le giovani generazioni hanno bisogno di punti di riferimento, di non sentirsi abbandonate. Di avere, in sintesi, dei compagni di viaggio affidabili e instancabili. In questo senso gli “uomini di Chiesa” possono dare e fare tanto. E allora, ci permettiamo di dirlo da laici consapevoli, la prospettiva diventa anche quella di un impegno vocazionale che allarghi gli orizzonti di questi giovani e dia loro quei compagni di viaggio di cui necessitano.

Fuor di metafora: non possono mancare santi sacerdoti che accompagnino questi ragazzi nel cammino di una vita che dall’incerto deve poi poggiare sul certo. Vanno bene tutti gli incontri, le riunioni, i raduni, le vacanze, gli oratori di questo mondo, ma se i nostri ragazzi dentro ognuno di questi momenti non trovano un sacerdote, il rischio di smarrire la bussola – o di non trovarla per niente – è grande. E’ un po’ quello che già stiamo conoscendo noi adulti, sempre più simili al protagonista della canzone di Celentano che in estate si ritrova <senza un prete per chiacchierar>. E si fa subito autunno, inverno.

Anche come Chiesa locale siamo invitati a fare qualcosa e di più. E così diventano essenziali la preghiera (<pregate il padrone della messe…> e la vicinanza ai preti (non di rado invece siamo loro “vicini” solo con le maldicenze).

 

 

Ma chi manda in onda “I bastardi di Pizzofalcone”?

Non leggo i libri di Maurizio De Giovanni e mi fido del parere della mia amica Laura Collinoli che li ritiene belli. Ergo: la trasposizione televisiva deve essere allora una libera interpretazione dei liberi, perché i “gialli” che manda in onda Rai Uno nella serie “I bastardi di Pizzofalcone” di giallo hanno (scusate l’immagine forte, ma quanno ce vo’ ce vo’, come dicono a Roma) sì e no il colorito di quello che dalla bocca finisce nel water dopo aver visto le puntate, tipo soprattutto – e tra un po’ diremo meglio perché – quella di ieri sera.

Storielle esili, che capisci come va a finire alla seconda inquadratura. Attori che, nella vita reale, non vorresti come giudici o poliziotti neppure se fossi il peggiore dei delinquenti e dunque avresti solo da guadagnarci dalla improponibilità delle maschere portate in tv da Alessandro Gasmann e Carolina Crescentini (di converso, delle liete sorprese sono invece Gennaro Silvestro, nei panni dell’agente che trova una neonata tra i rifiuti, e Gianfelice Imparato, che impersona il poliziotto saggio vicino alla pensione, mentre Gioia Spaziani conferma doto eccelse ma sottovalutate dal cinema e da una certa tv).

Ma il punto è un altro (l’ho già scritto, ma mi piace coerentemente ripeterlo e rimarcarlo): nella fiction tv – nei libri, ripeto, non so – c’è una giovane poliziotta lesbica che intreccia un rapporto con una superiora. Ogni puntata è la stessa solfa di sbaciucchiamenti e amoreggiamenti dove capita, dai talami di certe case che per mantenerle dovresti guadagnare almeno 10mila euro al mese ai corridoi di un commissariato.  Ma ieri sera – lunedì 5 novembre – la Rai radiotelevisione italiana ha raggiunto il massimo, con scene di “amore” lesbico ripetute e ostentate della poliziotta in un club o in mezzo alla strada, fino alla “morale” dell’altra “innamorata” tradita, che invece chiedeva un “rapporto stabile”. Una immondizia allo stato puro, una moralità rifilata sotto i tacchi. E presa dalle tasche di quanti, come me, con i soldi del canone non vogliono certo finanziare “opere” del genere. Per giunta in prima serata, quella che una volta mettetevi la famigliola davanti alla tv e anche così costruivi un’Italia migliore, degna di antichi Valori.

Una Cittadella in mezzo al Cielo

Sarà banale e scontato, ma da stamane – pensando a queste povere cose da scrivere – mi martella il ritornello della bella canzone “La vita è adesso” di Baglioni, un testo autenticamente religioso, come ha fatto notare l’ottimo Andrea Pedrinelli nel suo libro di qualche anno fa “Quel gancio in mezzo al cielo”.

Io, un bel pezzo di cielo ce l’ho a pochi chilometri da casa, qui a Frosinone: è Cittadella Cielo, il cuore dell’esperienza di Nuovi Orizzonti. Un’esperienza che sto imparando a conoscere piano piano, grazie all’amicizia (e alla pazienza nei miei confronti…) di don Davide Banzato.

Mi piace la loro gioia, mi affascina la loro gratuità nel dare, mi fa riflettere sulla mia pochezza la loro “grandezza” nel mettersi davanti al prossimo senza esaltarsi. Per questo, per tutto quello che fanno (per i giovani schiavi di mille dipendenze, in particolare) vanno aiutati. E ancora per pochi giorni possiamo aiutarli semplicemente, con un sms, al costo di due caffè. Oggi provo a scriverne sulle pagine di Lazio Sette, l’inserto della domenica di Avvenire.

Ps: in quel pezzo di cielo vicino casa, quando ancora era un rudere e io ero un ragazzino, correvo con la bicicletta e  andavo a giocare  a nascondino con gli amici. E’ davvero bello che, dopo tanti anni, il Signore abbia fatto “tana” attraverso questi nuovi Amici.