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Quel Tempo dei giornali divorati

Non vedevo l’ora che papà si alzasse dalla poltrona del salotto, non tanto per appropriarmi di quello spazio – preferivo le meno prosaiche ma più appartate scale condominiali che portavano al grande terrazzo che sovrastava i tetti degli altri edifici e che noi bambini avevamo eletto a torre di guardia per guerre mai combattute ma sempre vinte  – quanto piuttosto perché quello era il segnale giusto: aveva finito di leggere il giornale, quindi… toccava a me! Ed eccoli, gli immensi fogli de “Il Tempo”, non più intonsi, ma neppure troppo sgualciti, che iniziavo a divorare dalla prima all’ultima pagina, dal primo all’ultimo articolo, senza perderne neppure uno, anche se certi argomenti erano per me astrusi. Era quello il giornale che allora – a conti fatti, siamo a 45 anni fa – entrava in casa. E che ho letto anche io per tanti anni dopo. Allora non ne conoscevo “l’orientamento politico” e neppure mi interessava: mi bastavano (anche se in realtà non mi bastavano mai) gli articoli di cronaca, la terza pagina, gli spettacoli e lo sport, la rubrica del “disco rosso”, il “Così, semplicemente” di padre Rotondi, le recensioni di Rondi, gli editoriali di Gianni Letta (a proposito, qualche giorno fa l’ho incontrato a L’Aquila, l’ho ringraziato per quel periodo e quel giornale e l’ho visto perfino un po’ commosso nel ringraziare lui a me).

Nelle lunghe estati nella casa di campagna di nonna Maria, dietro la cantina era il luogo ideale per nascondermi, con “Il Tempo” (nonna si sobbarcava lunghi tragitti a piedi fino al paese, per la spesa di ogni giorno ma anche per prendere il giornale a quel nipote che rompeva la solitudine di vedova troppo giovane e la faceva ridere con i suoi scherzi) e un manico di scopa: quello era il microfono, e io ero l’inviato di un tg mentre leggevo le cronache del giornale da Paesi lontani.  Forse è lì e allora che ho desiderato fare il giornalista da grande; sicuramente è su quelle pagine che ho imparato i primi ma essenziali rudimenti della professione.

Poi gli anni sono passati. Ed è cambiato “Il Tempo” e sono cambiato anch’io, con i miei gusti editoriali, insieme al mondo dei giornali. Non faccio difficoltà ad ammettere che per un lungo periodo quel giornale non l’ho più riconosciuto, e quindi letto ancora di meno. Ma, al… tempo stesso, mi sono di nuovo un po’ emozionato – ed ecco perché scrivo queste misere righe di ricordi – quando stamane ho appreso delle novità grafiche del Tempo: un giornale che si rifà il vestito, che ne indossa uno nuovo, è perché vuole (ri)uscire tra la gente e fare bella figura.

La copia di oggi ce l’ho qui accanto, la sto compulsando da stamane, e “il nuovo” già si vede, si legge.

E, per quello che conta, faccio i migliori auguri al direttore Franco Bechis (nessuna captatio benevolentiae: ci saremmo visti sì e no un paio di volte e di certo neppure si ricorderà di me) perché questo nuovo vestito possa attrarre tanti lettori… Proprio come quel papà sprofondato nella sua poltrona e quel bambino col manico di scopa come un microfono.

 

Silone, quel grande cristiano (e la speranza di “Severina”)

Sull’Osservatore Romano di oggi – con data venerdì 11 ottobre e reperibile gratis sul sito del giornale della Santa Sede – ecco un articolo dedicato ad Ignazio Silone e da incorniciare, dal titolo “L’avventura di un grande cristiano”, nella rubrica “Incontri”, scritto da Elio Guerriero, uno dei massimi esperti siloniani (la sua biografia “Silone l’inquieto”, edita nel 1990 dalle Paoline, è una delle migliori mai pubblicate). Evidente il gioco di parole con l’avventura del “povero” cristiano e, prendendo spunto da qui e andando ben oltre, Guerriero tratteggia bene proprio la grandezza di Silone, che altri hanno invece colpevolmente sottaciuta anche in questo 30° anno dalla scomparsa.

Amo Silone come pochi altri scrittori, per una di quelle classiche infatuazioni giovanil-letterarie che neppure so spiegare (forse la lettura di un “Fontamara” alle scuole medie?) ma che poi si sono sedimentate. E adoro in particolare il suo scritto forse meno conosciuto, tanto più che, per il sopraggiungere della malattia e poi della morte, Silone lo lasciò incompiuto: “Severina”. E’ stata poi Darina, la moglie di Silone, a pubblicare quel testo che il suo Ignazio sulle prime intitolò “La speranza di suor Severina” e che stava scrivendo in un albergo di Fiuggi.

E ogni volta che vado a Fiuggi, peraltro cittadina a due passi da casa mia, mi fermo davanti ad un albergo dove Silone vergò quelle pagine, e immagino di vederlo lo Scrittore, lì sotto il gazebo e le foglie gialle tutte attorno a fargli da scudo, mentre verga parole e pensieri chino su un tavolo da giardino, un po’ ingobbito su una sedia bianca e gli occhi solo di tanto in tanto sollevati a guardare una vecchia fontana senza pure uno scroscio d’acqua (così come immagino, ogni tanto, di avere capacità da scrittore e di poter un giorno riprendere e finire io “Severina”, che addirittura vedo anche possibile sceneggiare per la tv e corro perfino a immaginare chi possa interpretare quella giovane suora…).

“Severina” è un susseguirsi di pagine memorabili (trovatelo il libro, leggetelo). “Severina” è – per l’appunto – la speranza messa per iscritto. La speranza (Darina commentò che probabilmente in quella figura femminile, peraltro l’unica protagonista della sua produzione, Silone scrisse di sé stesso) di un grande cristiano.

(nella foto, la prima pagina della mia edizione di “Severina”, edizione Mondadori, acquistata a 19 anni, nell’autunno del 1983, e da allora letta centinaia – o migliaia? – di volte).

Sull’isola dei sentimenti

“Tutto sarà perfetto” è un gran bel libro. Il più bello tra quelli di Lorenzo Marone, verrebbe da dire, se però lo scrittore napoletano l’anno scorso non ci avesse già regalato “Un ragazzo normale”, dedicato al povero  Giancarlo Siani.

E allora, detto dell’ex aequo di questi due libri sul podio maroniano, eccoci alla storia di “Tutto sarà normale”, che ti prende pagina dopo pagina, e ti regala l’ebbrezza – che riesce solo ai libri scritti per bene – di farti immedesimare di volta in volta in uno dei personaggi. Prima di tutto in Andrea, protagonista di queste pagine: è un fotografo che ha fin qui attraversato i suoi primi 40 anni di vita con una leggerezza apparente, e che invece scopriremo profondità quando – in maniera abbastanza casuale per uno che non è stato un giovane dai grandi affetti dati e ricevuti  – deve trascorrere alcuni giorni da solo con il padre morente. Ed eccolo allora Libero, questo ex comandante di grandi navi, burbero fino al midollo, ma poi capace di scatti di dolcezza soprattutto verso Andrea: i due mai si sono parlati e “toccati” così tanto come nelle ore che trascorreranno a Procida, isola dell’infanzia. Qui la scrittura di Marone tocca “vette” così alte che neppure sembra di stare… in mezzo al mare. Eppure le pagine di questo libro riescono a far respirare proprio quel mare, quell’isola.

A Procida padre e figlio si racconteranno, e insieme sveleranno, un gran segreto delle loro vite, della loro vita, che ovviamente noi non raccontiamo per non togliere ulteriore piacere al Lettore. Ma soprattutto – questo possiamo dirlo – entrambi ritroveranno la figura di una moglie e madre deliziosa, di quella ragazzina belga innamoratasi del suo principe azzurro arrivato dall’isola italiana, e capace anche lei di custodire qualche segreto, ma sempre percorrendo i sentieri dei sentimenti, che sono poi la strada maestra di questo libero. Poi c’è Marina, la sorella di Andrea, indaffarata (o forse no…) nella sua vita fatta di mille precisioni, ma anche lei alla disperata ricerca di affetti, di sentimenti, lei che quel padre lo ha avuto sempre vicino e che pure lo scoprirà ancora più vicino quando Andrea lo porterà lontano da lei, a Procida (detto per inciso: ogni scrittore che sa raccontare un’isola è mille miglia avanti gli altri).

Volutamente abbiamo lasciato un po’ di fumosità attorno alla trama, perché probabilmente ogni Lettore ne traccerà una diversa, rispecchiandosi in una parte o nell’altra del libro, oltre che dei vari personaggi. Anche per questo – per scommettere su una lettura diversa, mai banale – vale la pena di spendere i 16,50 euro di “Tutto sarà perfetto”. E di aspettare – non al varco, ci mancherebbe, ma in trepida attesa di un’altra porzione di gustosa lettura – il prossimo libro di Lorenzo Marone (che, detto per inciso, benché venda e abbia una discreta visibilità, meriterebbe ben altra “fortuna” da parte del grande pubblico e sulle scene editoriali).

La quiete dopo la nostalgia di certe nostre estati

Se amate il surf, questo libro è il migliore in circolazione (ammesso che ne esistano altri di romanzi con il surf al centro); se – come il sottoscritto – di surf non sapete un accidenti, e tutto sommato non vi appassiona neppure il recuperare i decenni perduti in materia, e però amate i libri di un certo livello, allora questo “Molto mossi gli altri mari”, di Francesco Longo (edito da Bollati Boringhieri) è imperdibile. Perché il livello di scrittura è veramente alto e cavalcherete l’onda di questa storia (a ridaje col surf…) con un piacere crescente, e da una buona metà in poi delle 176 pagine non vedrete l’ora di andare alla pagina successiva per seguire il dipanarsi dei personaggi. Che poi sono essenzialmente due, con un bel contorno di amici: Michele, il ragazzo che vive tutte le stagioni a Santa Virginia, la baia ideale per fare surf, e Micol, la bellissima ragazza che invece piomba solo in estate dalla grande città in cui abita. E neppure tutte le estati, riempiendo quindi la vita di Michele di un filo sottile di nostalgia, di una malinconia struggente che Longo (già apprezzato scrittore di un reportage sulle e dalle isole Eolie, pubblicato nella “Contromano” di Laterza) scrive e trasmette al lettore, mentre sulla baia di Santa Virginia sta per abbattersi una tempesta senza precedenti.

Qui il gioco di parole può sembrare facile, ma davvero quella di Michele e Micol è (anche) una tempesta di sentimenti, di detto e non detto, di avvicinamenti di corpi e anime sempre destinati a rimanere però un po’ distanti.

Le estati di Michele e Micol – e dei loro amici, bravi nel surf e un po’ meno con i sentimenti – riproiettano il lettore al tempo magico di chissà quante stagioni fa. Perché ognuno di noi – a Terracina come a Forte dei Marmi o a Gallipoli – avrà di sicuro vissuto una, due o dieci estati così: a fare il filo a una ragazza senza che questa neppure se ne accorgesse, a sperare di incontrare almeno lo sguardo (ma spesso era solo il fumo della Vespa) di quel ragazzo.

Il tempo, così facendo, ha giocato con noi, c’è poco da fare. E ha pure vinto. E Francesco Longo ha la capacità, pagina dopo pagina, di ricordarcela tutta questa verità. Soprattutto nel finale ad effetto (e che ovviamente non sveleremo).

Assieme alla nostalgia, c’è anche il rimpianto (o magari sono la stessa cosa?) di quello che avrebbe potuto essere di una stagione della vita, e di tutte le altre. Perché Michele da Santa Virginia non andrà mai via, perché Micol forse ne capirà la ragione, ma i due non si incontreranno mai del tutto. E allora, la nostalgia o il rimpianto o come volete chiamare quel “sentimento” che ci fa star male e che pure cerchiamo con insistenza, trovano asilo in queste pagine. Come solo in un bel libro può succedere.

I malinconici stupori di Cardamone

Più e più volte ho scritto di Alfonso Cardamone, amico e Poeta, e dunque delle sue Poesie (e della nostra amicizia). Torno a farlo ora, con il solito, immenso e crescente piacere, per questa raccolta “Stupori tardivi”, edita da “Cultura e dintorni”, prefata con dovizia da Carmen De Stasio e con una serie di disegni elaborati da Claudio Ceccarelli.

Parafrasandone il titolo (e chiedo scusa per la banalità) mi viene subito da dire e da scrivere che lo stupore è tutto mio: davvero non pensavo che i versi di Alfonso potessero sorprendermi di nuovo, nel senso – provo a spiegare meglio – di stupirmi ancora di più di quanto non lo abbiano già fatto in questi anni (due decenni? O forse più) di coltivata lettura delle sue raccolte.

Qui siamo su vette altissime, e ne sgorga una Poesia che poi setaccia con meticolosità ogni ansa del fiume di dense parole che va a formare.

Vorrei aggiungere – a mo’ di pura riflessione personale, che non ha certo le armi del critico sopraffino e patentato – che da una pagina all’altra, il filo sottile che tutte le unisce mi è parso quello della malinconia. Che sarà anche condizione dell’animo, perfino materia di studio in psichiatria, ma che diventa elemento inossidabile – e a tratti indispensabile, anche involontariamente – per chi usa le parole per farne Poesia. Ed in questo, Alfonso è maestro.

Prendiamo “Incontro alla notte”, che più di altre m’ha colpito. Eccola: <Incontro alla notte/per saldare i conti/con il giorno trascorso/per rovesciare il tavolo/per spiare il teatro dei sogni>.

E in tanti altri versi c’è il disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa: non mi pare sia materia di speranza (tanto meno di quella cristiana, che so lontana dalla percezione e dalla contemporaneità dell’amico Alfonso), ma forse di vita che s’aggrappa alla vita. E l’ampia parentesi – intitolata non a caso “Transizione” – con i versi dedicati ai nipoti, magari sta lì a dimostrarlo.

E’ anche un interrogarsi continuo quello di Cardamone, come a volerli stanare certi “stupori”. Prendiamo i versi di “Stagioni (?)” nel cui titolo non a caso compare proprio il punto di domanda: <Ottobre qui da noi dietro/ i cancelli fioriscono pallide/ le rose/ ma dentro accesi orti/stupiscono i ciliegi d’inopinati/ frutti/ risaliranno forse in primavera/ dal mare fragorosi verso i monti/ i fiumi>.

Insomma, una raccolta deliziosa che lascia il buon gusto della lettura (e il retrogusto di riflessioni mai scontate né opache).

Ps: a proposito, “Malinconia” è anche il titolo dato a questi versi-manifesto: <Malinconia/male della tetraggine/ti assolve/sola la mai doma/voglia d’amore>.

Minchia signor Faletti, come manchi

Presi come siamo dalla stretta attualità – che va sempre più… stretta a chi cerca altro – ieri, 4 luglio 2019, in pochissimi hanno celebrato il quinto anniversario della scomparsa di Giorgio Faletti.

Molti lo ricordano come comico (bravo, mai sguaiato), moltissimi ne apprezzano ancora oggi i gialli. Eppure, fu con la Musica (intesa come parole e come melodia) che questo Artista astigiano offrì probabilmente il meglio di sè: “Signor tenente” – la canzone che portò a Sanremo nel 1984, se non ricordo male – era e resta un capolavoro. E quel “minchia signor tenente” andrebbe fatta ascoltare, riascoltare e imparare a memoria a tanti ragazzi, compresi quei giovani che aspirano a diventare musicisti passando per le scorciatoie di un talent di una sola stagione.

O a quegli adulti che oggi blaterano di antimafia, senza poi dare costrutto a tante buone intenzioni.

Faletti scrisse tante altre canzoni, magari meno famose ma tutte significative, mai inutili, mai da talent per l’appunto, offrendole ad artisti diversi, e spesso pure questi – da Drupi a Fiordaliso passando per Dario Baldan Bembo – mai apprezzati fino in fondo.

E poi, Giorgio Faletti spese gli ultimi anni della sua vita su un’isola (l’Elba). E solo un uomo che va su un’isola è capace di non essere un’isola.

Minchia signor Faletti, come manchi.

Pansa contro Islanda (e l’Islanda vince alla grande)

Leggo sempre due libri alla volta, possibilmente di genere diverso (e talvolta, per urgenze professionali, aggiungo anche un terzo volume). Sono convinto faccia bene tenere la mente allenata così.

Ecco gli ultimi due: “Quel fascista di Pansa”, di Giampaolo Pansa; “Risposta a una lettera di Helga”, di Bergsveinn Birgisson.

Non sono mai stato un grande appassionato di Pansa…: del Pansa giornalista probabilmente mi sono perso i giorni migliori, quando scriveva su Repubblica ed Espresso, non proprio in cima ai miei gradimenti editoriali. Dei suoi libri, invece, ne ho letti diversi, di certo interessanti pur non essendo capolavori. Quest’ultimo, invece, è stato una cocente delusione: Pansa racconta di come l’abbiano trattato male dopo che ha scritto alcuni libri sul fascismo, lui di sinistra. Tutto giusto, tutto vero. Ma non puoi passare 200 e più pagine di quest’ultimo libro a ripetere: ma quanto sono bravo, quanto ho venduto, quanti libri mi hanno fatto vendere le critiche. Non puoi arrivare all’affermazione “Io so’ io e voi non siete…”, e neppure cominciare il libro in questione dando del “fannulloni” a quelli che non sono d’accordo con te (e che però ti hanno fatto vendere, ripetuto una pagina sì e l’altra pure).

Delizioso – come gran parte della narrativa che arriva dall’Islanda – è invece l’altro libro, edito da Bompiani: l’anziano protagonista decide di rispondere, per l’appunto in tarda età, all’unica lettera ricevuta da Helga, il suo antico e grande amore perduto. E queste pagine sono proprio un inno agli amori perduti: a quello che spesso è l’unico amore di una vita, e che se va perduto è lo stesso un grande amore (pure se poi la vita si diverte e gioca con i sentimenti, indicando altri amori, anche sponsali). Questa unica, lunga lettera, è struggente. Come solo l’amore sa essere. E soprattutto l’unico, il grande amore di una vita (che spesso una vita non basta per un amore così grande).

 

Le ultime lezioni… non finiscono mai

Di nome sì che lo conoscevo Giovanni Montanaro, nel senso che su di lui avevo letto cose “altre”, ovvero parole di considerazione da parte di critici e recensori che amo seguire. Ma direttamente no, ancora niente di suo avevo letto, prima di questo piacevole, sorprendente “Le ultime lezioni”, edito da Feltrinelli (euro 15).

Dire che l’ho letto in una giornata è dire poco: ne è bastata una mezza o poco più di giornata, compresi due viaggi in treno da e per Roma, interminabili per via di tutte le fermate (comprese quelle dove continua a non salire o scendere anima viva) e col rumore delle parole del libro a placare quella dell’aria condizionata, che non sortisce alcun risultato se non quello di tempestare le orecchie dei poveri viaggiatori (lettori e non lettori).

E’ la storia di Jacopo e di un suo prof, il Costantini, che il ragazzo ha la fortuna di avere al liceo, anche se solo per un anno. Eppure quei pochi mesi bastano per lasciare il segno, sia nel discente che nel docente: il primo farà di tutto per ritrovarlo, dopo che il prof, una volta morta la moglie, si ritira nell’isola veneziana di Sant’Erasmo. Jacopo imparerà ad assorbire tutta la vita che c’è da quell’uomo, perfino dalla poca vita di quella figlia. E quel ragazzo, poi avviato verso una bella carriera da manager su ambiti economici più che letterari, farà di quell’isola – ma soprattutto dei suoi due abitanti – il suo rifugio: l’isola che c’è (con un finale a sorpresa, che ovviamente non va svelato).

La scrittura di Montanaro è sapidamente nervosa, a scatti per alcuni tratti, ma ammaliante per tutto il resto del tragitto del libro.

La Venezia che conosciamo e che non conosciamo, fa da contraltare a queste pagine, e finisci per innamorarti (pur continuando a preferire la laguna raggiunta da Malcontenta) anche del paesaggio assai riservato di Sant’Erasmo.