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I libri di Antonio Franchini (e quelli di mio padre)

I libri di Antonio Franchini – ora in Giunti Editore dopo un lungo passato a curare la narrativa italiana in Mondadori – li ho letti tutti. Più che letti: direi “compulsati”, studiati, vivisezionati e librosezionati (giacché il libro è un essere, il più delle volte vivo).

Franchini lo conosco – pur senza averlo mai incontrato di persona – da vent’anni, ovvero dall’uscita de “L’abusivo”, il più bello dei suoi libri, dedicato a Giancarlo Siani, il giovane cronista del Mattino di Napoli fatto fuori dalla camorra: pagine che mi hanno fatto innamorare di Giancarlo e ancor di più della professione di giornalista che praticavo già allora e seguo ancora adesso, nei marosi di parole e tempi che cambiano; quel libro l’avrò riletto almeno cinque o sei volte, mentre non perdo occasione per rivedere il film “Fortapasc”, con il povero Libero De Rienzo, ogni volta che passa in tv.

(Di Franchini, poi, conservo alcune belle lettere proprio di una ventina d’anni fa, quando  lavoravo in un giornale locale e gli scrissi, come usava allora, e forse un po’ lo intenerii se per l’appunto quella corrispondenza per un po’ andò avanti, salvo interromperla proprio io – se non ricordo male – per non scocciare oltre lo Scrittore e il professionista di fama. Ma il punto ovviamente non è questo).

Adesso di Antonio Franchini è appena uscito da Marsilio “Leggere possedere vendere bruciare”, che ho letto e posseduto in un paio di pomeriggi (di vendere e bruciare chiaramente non se ne parla neppure): per chi come me ama, e cerca perfino di collezionare, libri sui libri, questo di Franchini  è una goduria, anzi: un babà, per far onore al dolce più buono (e basta con queste sfogliatelle…!) della città d’origine dell’Autore.

Le 120 pagine dei cinque capitoletti immergono il lettore… nei lettori. E non è un gioco di parole. E’ un’immersione senza fondo nei libri che non si vendono “ma non è che non si vendono adesso, è che non si sono venduti mai!”, come afferma a più riprese – lo fa in napoletano, forse un po’ troppo stretto, per cui qui la traduzione è mia – il venditore Procolo Falanga in alcune tra le pagine più deliziose e che non a  caso recitano nel titolo del capitolo di “Memorie di un venditore di libri”. In queste 120 pagine c’è tanto dell’editoria italiana, di quelli che scrivono o aspirano a farlo (perfino dei poeti); di quelli che, come Franchini per l’appunto, leggono i dattiloscritti di quelli che poi vorrebbero pubblicare (ma forse sono i primi a non leggere. Aperta e chiusa parentesi altrimenti qui non la finiamo più e si andrebbe fuori tema, come ripetevano tutte le insegnanti di Lettere di medie e superiori d’Italia).

Ma, visto che questa non è una recensione in senso lato, aggiungo che il capitolo più breve ma più intenso, è “I libri di mio padre”: mi ha emozionato non poco, fino alle lacrime e non mi vergogno a dirlo/scriverlo. Ho pensato, ovviamente, ai libri di mio padre (duemila, tremila? Forse di più) che stanno ancora lì nello studio, sette anni dopo la sua morte, accanto e sorvegliati dagli altrettanto amati francobolli: molti li ho letti, più di qualcuno arriva dalla mia scarsa fantasia dei regali per il suo compleanno, a cui seguiva subito dopo il Natale…

Ma nulla dirò/scriverò della biblioteca di mio padre, almeno adesso. Forse tra vent’anni: quando questo libro di Franchini sarà ancora attuale e intanto l’avrò riletto cinque o sei volte, ad iniziare da quel primo, stupendo capitolo.

Igor Traboni, marzo 2022

La (mia) parabola del mezzo talento

“Ma chi te lo fa fare?”. Così mi dice un conoscente dopo che ho appena finito di presentare un libro, non mio, e aver organizzato la relativa manifestazione, comunque grazie anche ad altri amici. D’altro canto, si vede che sono stanco: sono in piedi da 14 ore, al mattino ho lavorato, poi le incombenze familiari, poi ancora le ultime cose da organizzare e la presentazione stessa. “Ma chi te lo fa fare?”: spesso me lo chiedo anch’io e mi riprometto: questa è l’ultima volta che faccio una cosa del genere. Anche perché “perdo” tanto tempo, più di qualche volta anche del denaro (quando organizzo io la remissione è certa, quando mi invitano per presentare non mi danno neanche un euro). E, oltre tutto, non ho il phisique du role e neppure conosco chissà quante cose. Certo, con alcuni Autori che ho presentato ora siamo amici, ed è bello; ma tanti altri, se li chiami neppure ti riconoscono, se mandi una mail neppure rispondono, anche se quel giorno, grazie alla tua presentazione, hanno venduto 50 o 100 libri. Però… però poi penso che magari ad una persona, ad una sola di quelle che era lì ad ascoltare, magari è rimasto qualcosa di quel libro, e siccome cerco di presentare solo libri “edificanti”, allora va bene così. E penso ancora alla mia parabola preferita, che è quella dei talenti. Io un talento vero non ce l’ho: so bene che mi fermo a mezzo talento, perché forse so un po’ scrivere, forse so un po’ leggere libri e poi forse ne so un po’ parlare alla gente. Ma il mio mezzo talento voglio che dia frutto, per essere fedele nel poco.

(immagine presa da www.padrestefanoliberti.com)

Camminando con Polito, perché un paese ci vuole

Da Norcia a Montecassino, sulle orme di Benedetto. E’ il tragitto compiuto da Antonio Polito, vice direttore del Corriere della Sera, narrato – e non solo raccontato – nel bellissimo “Le regole del cammino. In viaggio verso il tempo che ci attende”, edito da Marsilio. Il viaggio di Polito e di alcuni suoi amici non è solo materiale, fatto di fatica, discese e ascese. E neppure solo spirituale, anche se ogni pietra parla di Benedetto. Questo viaggio così raccontato è introspettivo, nella migliore accezione del termine: è il cammino che ognuno di noi dovrebbe fare, per scoprire e scoprirsi (forse anche un po’ migliori).

E’ un viaggio dentro i paradossi del nostro tempo, laddove la frugalità, ad esempio, la scambiamo per una dieta. O dove il giusto rispetto per l’ambiente viene barattato con quello che Polito chiama <fondamentalismo da khmer rossi>. Le pagine di questo libro ci portano anche nei paesi e nei luoghi che sappiamo nostri, ma che magari non conosciamo (e neppure riconosciamo) abbastanza: Trevi nel Lazio, Trisulti, Casamari, Veroli, fino al borgo natale della famiglia, ai piedi di Montecassino, che l’Autore frequentò da bambino.

<Fermarsi nei paesi, soprattutto in quelli più piccoli, suscita immancabilmente in me una specie di nostalgia all’incontrario: accende il desiderio, quasi struggente, di un’altra vita che non ho mai avuto (…)Di sicuro mi dà gioia fermarmi. Anzi, direi quasi che cammino per poterlo fare>, scrive Polito in uno dei capitoli più belli, introdotto da una frase di Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”.

(Questo articolo è stato pubblicato nel numero di maggio di “Anagni-Alatri Uno”, mensile della diocesi di Anagni-Alatri)

Quando i giornali erano giornaloni

Su Avvenire di oggi, nella sua rubrica del sabato, Gianni Gennari ricorda padre Virginio Rotondi: per me un tuffo al cuore di una quarantina d’anni, quando i giornali erano giornaloni. In tutti i sensi erano giornaloni: per i contenuti (lì trovavi tutto, mica esisteva internet, e anche rispetto ai tg, limitati a pochi canali), per il formato. Già, erano grandi, enormi, quando li dispiegavi, non bastava il divano buono di casa o il tavolo della cucina. E amavo perdermi in quelle pagine. Allora – 40-45 anni fa – a casa entrava Il Tempo: lo leggeva papà, ma poi lo ritrovavo anche nelle lunghe estati a casa degli zii a Ceprano. Era un giornalone, davvero, anche e soprattutto per le firme. E io correvo a leggere – mi pare fosse a pagina 2 – la rubrica di padre Rotondi, “Così, semplicemente”. Un giorno, presa carta e penna, gli scrissi anche. Tanti anni dopo, ci incontrammo per caso, gli dissi di quella lettera e lui si ricordava bene di quel ragazzino che aveva scritto a mano; l’aveva anche messa in pagina, ma poi il giornale non uscì per uno sciopero; la lettera, mi disse, era piaciuta anche al direttore di allora – per me l’altrettanto mitico Gianni Letta – ma poi non riuscirono a pubblicarla perché presi da altre urgenze. Ma sono rimasto sempre grato a padre Rotondi per quell’attenzione. E a quei giornaloni, d’altri tempi, ma di un tempo per crescere.

Collezionando (con passione e… Gusto)

Ovviamente non interesserà niente a nessuno, ma anche io ho la mia piccola grande collezione. Una sola, anche se mi sarebbe piaciuto dilettarmi con più cose e fare come papà, che di collezioni sapeva davvero farne, ad iniziare da quella fantastica di francobolli (e non banale, ma per aree tematiche).

Dicono che collezionare faccia bene: tiene sveglia la mente e, anche nei momenti bui della vita, una passione aiuta. Dicono, e ci credo: anche se non puoi portarla tanto avanti (una collezione spesso è anche costosa) è proprio nei momenti bui che aiuta: stai lì a guardare e riguardare quello che hai collezionato e vengono in mente solo ricordi belli di quando hai trovato quel pezzo, di come l’hai inseguito, ecc.

La mia collezione, dunque: numeri 0 e numeri 1 di giornali, ma anche ultimi numeri di giornali (quotidiani, settimanali, mensili, bimestrali, usciti una sola volta…). Di ogni genere: quotidiani generici e sportivi, giornali di economia, femminili, di viaggi, politici, fumetti…

Non è originalissima, ma visto che la porto avanti oramai da una quarantina d’anni, ho numeri collezionati di un certo pregio: non valgono niente, ovviamente, ma sono “chicche” di un mondo che spesso non c’è più.

Poi, lietissime sorprese, come ieri, con il primo numero di Gusto di Repubblica: un ampio servizio su Roberta Pezzella, una mia concittadina tornata a Frosinone per fare la fornaia. Pane per i miei denti (e scusate la battutaccia) visto che raccolgo anche – ma questa non è una vera e propria collezione, piuttosto materia di… studio – tutta l’attualità che viene pubblicata su Frosinone e la Ciociaria.